IV Domenica di Quaresima – anno B

11 Marzo 2018

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Gv 3,14-21

Commento

Sapientemente, l’itinerarium quaresimale ci ha condotto fino alla IV domenica di quaresima: già pregustiamo e attendiamo la gioia e la luce della Pasqua in cui Cristo Salvatore, il più bello tra i figli dell’uomo, passerà dalla morte alla vita introducendoci nella sua vita. Volendo comprendere il senso della nostra pericope non possiamo non collegare il versetto 14 al versetto 13 precedente. Infatti, questi due versetti insieme sono il II e il III dei 13 loghia del Figlio dell’uomo così come ce li presenta l’autore del IV Vangelo. Il primo di questi loghia lo incontriamo in Gv 1,51: “In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”. Il v. 14 costituisce in Gv il primo annuncio della passione così come possiamo subito comprendere dal verbo innalzare. Questo verbo rimanda subito all’evento pasquale ed è metafora della glorificazione di Gesù. A differenza dei sinottici Giovanni non descrive il modo in cui il Figlio dell’uomo soffrirà ma, in parallelo con la tradizione sinottica, per Giovanni l’annuncio non viene dato attraverso il riferimento esplicito alla sofferenza ma attraverso la metafora dell’innalzamento. Gli altri due annunci li ritroveremo in Gv 8,28 e Gv 12,32. Nei versetti 16-17 successivi, che possiamo intendere come il kerygma delle prime comunità cristiane, si passa dall’enunciato sul Figlio dell’uomo all’invio del Figlio di Dio. È il Padre che dona e invia il suo Figlio non per giudicare il mondo ma per salvarlo. E come si può ottenere la salvezza? Credendo nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Credere è già opera, ma non nel senso di contrapposizione tra la fede e le opere, ma nel senso che l’atto di fede è espressione di un dinamismo salvifico in cui l’uomo nella sua totalità e Dio nella sua totalità collaborano e cooperano. Dice Agostino: “Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”, cioè “Dio, che ti ha creato senza il tuo assenso, non ti salverà senza la tua collaborazione”. Per questo l’esperienza di fede, il credere o il non credere, significa mostrare quello che si ha dentro, essere passati al vaglio, mettercela tutta nella collaborazione fruttuosa e personale nell’unico progetto di salvezza. Non è giudizio. È giudizio di smascheramento della propria tenebrosità.

 

Luigi V.

 

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